Da Il Corriere della Sera:"Come si incoraggiano i giovani alla previdenza integrativa"

Il 73% dei dipendenti privati sceglie di non avere previdenza integrativa. Cosa si può fare per questa maggioranza a rischio di vecchiaia impoverita?

È possibile arrotondare le pensioni del domani, magre per tutti e magrissime per tanti giovani, e al tempo stesso ridurre un po' il deficit pubblico? Nell'attesa di una crescita che risolva in radice la questione, la risposta è: forse sì. Il modo? Facendo previdenza integrativa pubblica e utilizzando il varco, aperto con la Finanziaria 2007 dall'allora ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, che affida a un fondo gestito dell'Inps per conto dello Stato gli accantonamenti annuali del Tfr non versati ai fondi pensione nelle aziende con più di 50 dipendenti. Il governo Prodi destinò queste risorse, tra i 3,5 e i 4,5 miliardi l'anno, più o meno il 10% del flusso annuale del Tfr, al finanziamento di investimenti infrastrutturali. Nel 2009, il governo Berlusconi ne ha esteso l'utilizzo alla copertura del deficit sanitario. Ma andiamo con ordine.

C'è qualcosa di triste e di paradossale nella situazione dei giovani del 2011: sono meno numerosi di una volta, la loro formazione è più ricca, erediteranno patrimoni accresciuti, eppure hanno perso la certezza dei padri in un futuro migliore da lavoratori e, poi, da pensionati. Come scrive l'economista Felice Roberto Pizzuti nel Rapporto sullo Stato sociale 2011, fino a prima degli anni Novanta un ex dipendente con 40 anni di contributi e 60 anni di età poteva contare su un trattamento pari al 77% dell'ultima paga. Un soggetto con le stesse caratteristiche, che si ritirasse nel 2035, avrebbe una pensione pari al 58% del salario; potrebbe arrivare al 66% rinviando la quiescenza a 65 anni. Chi restasse precario sempre, e andasse in pensione a 65 anni con 40 anni di contributi, avrebbe il 49% del salario come pensione e solo il 42% se le annualità contributive fossero 35. Ora, il precario permanente è un caso limite, ma con l'ormai elevata flessibilità del mercato del lavoro anche 45 anni di contribuzione continuata non saranno cosa da tutti.

Questo taglio delle pensioni si basa sul passaggio dal regime retributivo a quello contributivo e sull'adeguamento dell'età pensionabile alle aspettative di vita. È stato perseguito dai governi per evitare che il crescente numero di anziani facesse fallire le casse previdenziali, Inps in testa. E per dare una speranza ai tartassati si è varata la previdenza integrativa. Ma senza troppo successo. Dopo oltre 12 anni, e nonostante il silenzio-assenso introdotto nel 2007, solo il 27% dei lavoratori del settore privato aderisce a piani di previdenza integrativa proposti per metà dai 391 fondi preesistenti e per l'altra metà dai 39 fondi negoziali tra imprese e sindacati, dai 76 fondi aperti e dalle polizze individuali previdenziali delle assicurazioni. C'è un esercito di piccole burocrazie a gestire un patrimonio cumulato di 78 miliardi di euro. Che, contrariamente alle illusioni degli anni Novanta, non dà risorse all'economia produttiva ma le toglie. Solo l'1,5% dei patrimonio dei fondi negoziali e il 3,8% di quello dei fondi aperti è investito in azioni italiane, mentre la metà delle obbligazioni in portafoglio è estera. D'altra parte è difficile considerare il rendimento riportato in tabella adeguato al rischio implicito.
Il 73% dei dipendenti del settore privato, dunque, sceglie di non avere previdenza integrativa.

Perché? Due le ragioni: mancano i soldi da versare; latita la fiducia nei mercati finanziari cui si rivolgono i fondi. Si può fare qualcosa per questa maggioranza silenziosa a rischio di vecchiaia impoverita? Certo, i fondi pensione possono migliorare il marketing per attivare un maggior risparmio previdenziale. Forse dovrebbero innovare la gestione, se Pizzuti dice il vero quando sostiene che il costo medio delle polizze in 35 anni riduce del 36% il montante accumulato. Ma il governo potrebbe subito fare di meglio: offrire una nuova chance, parificare la contribuzione dei precari al 33%, perché con il 27% di poco si ottiene pochissimo, e consentire a chi lo crede di incrementare comunque la contribuzione al sistema pubblico con il duplice effetto di tonificare un po' le pensioni prossime venture e di regalare maggior flessibilità al bilancio dello Stato. Per dare un'idea degli effetti, ecco due simulazioni.

La prima, assai prudenziale e rivolta alla forza lavoro delle aziende con meno di 50 dipendenti, il Corriere l'ha affidata a un gruppo di esperti ipotizzando la costituzione di un fondo complementare Inps rivolto al lavoratore tipo, con un salario annuo lordo di 26.200 euro. Senza toccare il Tfr, contando solo sul versamento volontario di 60 euro al mese (20 il dipendente, 40 il datore di lavoro), un individuo di 35 anni nel 2012 che va in pensione a 65 anni, potrà avere 193 euro di integrazione mensile per 13 mensilità oppure un capitale da ritirare di 52 mila euro, avendone personalmente pagati 12 mila nel periodo. Il calcolo è fatto assumendo che il montante contributivo si rivaluti dell'1,5% più i tre quarti dell'inflazione ogni anno, in perfetto stile Tfr. Unico rischio è il fallimento dello Stato o un'inflazione superiore al 6% che eroderebbe il potere d'acquisto del capitale. L'effetto macroeconomico, immaginando l'adesione del 30% degli aventi diritto, non sarebbe trascurabile. Tra il 2012 e il 2025 si accumulerebbe un montante contributivo di 58 miliardi e così via a salire.

Una simile proposta, con le dovute modifiche, può essere rivolta anche a qualche milione di partite Iva a basso reddito e bassissima contribuzione obbligatoria, dunque destinato a pensioni da fame. Ma poi c'è anche una simulazione più ambiziosa. Che si ricava dal citato Rapporto sullo Stato sociale.
Ebbene, la contribuzione ai fondi integrativi è pari a circa il 10% del costo del lavoro (il 6,91% del Tfr più il 3% volontario, di cui 2 a carico dei datori di lavoro e uno a carico del dipendente). Se la metà dei dipendenti rimasti lontani dalla previdenza integrativa versasse la contribuzione aggiuntiva possibile all'Inps, avremmo due effetti: a) chi lo facesse, e staccasse a 65 anni, riceverebbe una pensione che sale dal 66 al 73% del salario; b) l'intero settore privato darebbe un gettito contributivo di 4 punti in più. Secondo Pizzuti, per il bilancio previdenziale, e dunque per il bilancio pubblico, ci sarebbero da subito maggiori entrate pari all'1,4% del Pil, qualcosa come 20 miliardi l'anno. La manovra da 40 miliardi in due anni, che sta togliendo il sonno al ministro dell'Economia. Naturalmente, troppo bello per essere vero.

Massimo Mucchetti
07 giugno 2011